Intervista con lo scrittore Lorenzo Licalzi
Lorenzo Licalzi, nato a Genova nel 1956, dal 2001 ha pubblicato dieci libri – nove romanzi ed un volume di racconti – alcuni tradotti anche in russo e giapponese. Il suo primo romanzo “Io no” (2001) fu un grande successo da cui è stata creata anche la versione cinematografica. “Signor Rinaldi kratzt die Kurve”, in italiano “L’ultima settimana di settembre”, è il suo primo libro tradotto in tedesco pubblicato dalla casa editrice “Eisele Verlag” nel 2017.
A settembre ho parlato con lui per saperne di più sulla sua creatività letteraria e su cosa lo ispirasse come scrittore.
Lorenzo, dopo aver studiato psicologia, sei stato cofondatore e direttore di una casa di riposo. Ma quello non era il tuo vero destino. Il racconto “La vita che volevo” descrive il momento in cui l’hai capito. Può dirci se questa storia della zingara al semaforo è realmente accaduta?
Sì, è successo davvero. Sai, c’è sempre qualcosa di autobiografico nei testi di un autore. In questa storia ho enfatizzato un po‘ quello che è successo, l’ho portato ad un livello letterario, ma sì, questa scena in macchina mi è successa davvero esattamente così. Ora non posso mettere la mano sul fuoco se le parole della zingara erano esattamente quelle che ho scritto: “Ma è questa la vita che volevi?”, ma lei ha detto qualcosa del genere. Ricordo chiaramente le parole “vita” e “volevi”. In questa situazione, giunta nel momento in cui tutto per me era troppo stressante, ho vissuto un momento quasi surreale, l’intensità dello sguardo penetrante della zingara ha fatto scattare qualcosa in me, aprendo una porta. Ho capito che non potevo continuare così.
E poi hai terminato le attività della gestione della casa di riposo …
Non subito, ma mi sono preso del tempo libero, soprattutto da quando è nato il mio secondo figlio. Avevo 38 anni al tempo e non è che avessi una brutta vita, ma bisogna essere nati per fare l’imprenditore. Per me è stata un’esperienza preziosa, ma io sono più il tipo che raggiunge l’equilibrio con la pace, non sotto pressione. Mi sono preso un anno sabbatico e ho scritto il mio primo romanzo. Ho trovato gioia nella mia nuova vita, non volevo tornare indietro e alla fine ho rinunciato a fare l’imprenditore. In un primo momento ho continuato a svolgere il mio lavoro di psicologo per l’ospedale militare, un lavoro che non mi metteva pressione. E improvvisamente non solo avevo i pomeriggi liberi, ma soprattutto la testa libera. Nel frattempo, per circa dieci anni, mi sono dedicato esclusivamente alla scrittura.
Come sei riuscito a pubblicare il tuo primo libro?
Facendo qualcosa di diverso dagli altri. Nella primissima fase creativa, ho scritto quattro racconti in cui i protagonisti incarnavano ognuno diversi lati presi dalla mia personalità, ed ero convinto che potessero declinarsi in un buon libro. I testi li ho inviati ad alcune case editrici, tra cui la nascente casa editrice romana “Fazi Editore”, non nel canonico modo, ma con una lettera abbastanza demenziale direttamente all’attenzione del direttore editoriale. Una volta ricevuta la mia lettera, mi ha chiamato e mi ha detto: se le tue storie sono brillanti come la tua lettera, ti pubblicherò. Dopo che lui aveva letto la mia prima storia, “Io no”, preso dall’entusiasmo mi ha invitato a firmare il contratto. Mentre ero seduto davanti a lui, felicissimo, ho chiesto cosa ne pensasse delle altre tre storie. Ma, indovinate un po‘, non ne aveva letta nessuna. Non voleva pubblicare racconti, ma aveva già riconosciuto in “Io no” il potenziale per un intero romanzo. Così mi ha mandato a casa con il compito di trasformare le quaranta pagine in due o trecento. Ero felice e preoccupato allo stesso tempo, perché pensavo di aver già detto tutto, che non avrei potuto pensare ad un’altra parola. Ma aveva ragione, naturalmente. I miei testi non erano racconti, ma i soggetti di quattro romanzi che poi ho scritto. Questi primi quattro sono i miei romanzi più genuini, nati dal bisogno essenziale di elaborare in forma letteraria i miei allora quarant’anni di vita. I seguenti sono più costruiti, se volete. Questo non significa che siano meno riusciti, al contrario. Il romanzo che personalmente considero il mio migliore, “L’ultima settimana di settembre”, è stato pubblicato nel 2015 ed è il mio penultimo fino ad oggi.
Può sembrare banale, ma in effetti i tuoi testi, e penso soprattutto al primo incontro con “Che cosa ti aspetti da me”, mi fanno sorridere o addirittura ridere, e poi, due pagine più avanti, piangere come un vitello. Il tuo stile inimitabile è caratterizzato dall’arte di combinare il dramma con l’ironia. Non molte persone riescono a farlo in modo così brillante …
E questo non è proprio facile. Si cammina sempre su una linea dannatamente sottile, rischiando di cadere nel grottesco e di essere poco credibile. “L’ultima settimana di settembre” è anche uno di questi romanzi che sono tragici in sé, ma allo stesso tempo hanno passaggi comici.
È vero, come sai, conosco questa storia anche meglio delle altre. Mi è piaciuta particolarmente, è grande con il suo equilibrio tra eventi tragici da un lato e ironici al limite del sarcasmo dall’altro. Il romanzo ha un titolo diverso nella pubblicazione tedesca. Ovviamente seguendo considerazioni di marketing, cercavano un po‘ di luoghi comuni nella mente dei tedeschi nei confronti dell’Italia. In particolare, il sottotitolo, che parla di un viaggio “folle“, rischia, secondo me, di suscitare false aspettative. Com’è andato il “Signor Rinaldi kratzt die Kurve”?


Direi abbastanza bene. Questo si vede anche dal fatto che ora c’è un’edizione tascabile. E non sono state fatte grandi campagne di marketing, il mio nome era troppo sconosciuto per questo e anche la casa editrice era appena partita ed io ero una delle sue prime quattro pubblicazioni su cui puntavano. La celebrità e il successo sono difficili da raggiungere. In Italia, con i dieci romanzi che ho scritto, direi che mi colloco in una fascia media della conoscenza degli scrittori nazionali. Sono comunque orgoglioso di essere l’unico autore con dieci libri, tutti pubblicati anche in edizione tascabile, la metà dei quali sono già alla quindicesima edizione con tirature medie di 2.000 copie. Il passaparola funziona, i lettori raccomandano i miei libri ad altri, e così “Io no”, pubblicato vent’anni fa, viene ancora ristampato adesso.
Un buon segno. Anche senza grande marketing costoso, stai andando bene e le tue storie non sembrano passare di moda. Come trovi le idee per i tuoi romanzi?
Quando ho una buona idea, me la porto in testa e la scrivo, ma non basta. Ci vuole di più perché un’idea diventi un romanzo. Non sono il tipo di scrittore che scrive tre ore o un certo numero di pagine ogni giorno in modo disciplinato. Non scrivo affatto per lunghi periodi, ma quando inizio, devo continuare. Entro profondamente nella storia, che diventa parte di me. Questo non accade sempre, puoi avere una buona idea, ma quando scrivi a volte rimani fuori, e i dialoghi ti fanno sentire estraneo. Deve scattare una scintilla. Di solito scrivo, e dopo trenta o quaranta pagine, quella scintilla si accende, ha qualcosa a che fare con il mistero della creatività. Poi entro nella storia, e anche se sono ancora io a guidarla, la storia stessa prende ogni tanto una direzione anche per me inaspettata. Se questa ispirazione non viene, allora bisogna essere pronti a scartare l’idea, anche se pensavo che fosse buona, e in questo caso non diventerà mai un romanzo, mi è successo diverse volte.
E poi, una volta che la scintilla creativa si è accesa, quanto tempo ti ci vuole per scrivere la prima versione?
All’inizio, devo portare la storia velocemente avanti, in più o meno tre settimane scrivo una bozza. Ho una tale fretta creativa che mantengo i dialoghi brevi e secchi, perché so tutto io, so come si sentono i protagonisti in quel momento. Solo in un secondo turno mi metto a dettagliare ed arricchire le frasi, descrivendo i sentimenti dei protagonisti ai miei lettori. 200.000 battute diventano poi 350.000, a grandi linee.
Hai degli scrittori preferiti o delle opere che ti hanno ispirato?
Il mio autore preferito in assoluto è il giapponese Haruki Murakami. Lo scrittore italiano che mi piace è Andrea De Carlo. La cosa di De Carlo ha influenzato la mia strada, lascia che te la racconti. Fino a 38 anni non avevo letto nulla di De Carlo, poi ho letto “Due di due”, e questa storia, soprattutto il suo protagonista Guido, mi ha ispirato a scrivere il mio primo romanzo. Francesco Massa di “Io no” sarebbe il migliore amico di Guido, e l’ho anche scritto a De Carlo in una lettera. In realtà io sento difficoltà quando le persone dicono che un libro ha cambiato la loro vita. Com’è possibile, vorrei chiedere, quanto era vuota la loro vita fino ad allora? Direi, semmai, solo la Bibbia dovrebbe essere in grado di cambiare una vita. O forse il primo libro che leggi da giovane, che ti apre il mondo della letteratura. Eppure, nel mio caso, un libro, “Due di due” di De Carlo, ha risvegliato il mio desiderio di scriverne uno io stesso. Forse avrei iniziato a scrivere ugualmente, ma il suo libro in quel momento mi ha acceso la scintilla.
Il tuo ultimo romanzo, “Le Alternative dell’Amore”, pubblicato nel 2019, l’ho appena ricevuto e lo leggerò prossimamente. Ora, naturalmente, sono interessata a sapere se stai lavorando a una nuova storia …
No, non ho più scritto dal primo lockdown, non mi metto neanche sotto pressione. Certo che potrei sedermi, con l’esperienza che ho, e scrivere un altro romanzo, ma bisogna avere qualcosa da dire. Al momento, mi sembra di aver già detto tutto ciò che era importante per me. Quindi non mi stresso.




Grazie, caro Lorenzo, per la nostra conversazione. Io sono, ovviamente, una di quelle che stanno facendo il passaparola per te. Ho già raccomandato il tuo libro “Signor Rinaldi kratzt die Kurve” ai lettori tedeschi del mio blog e lo faccio di nuovo qui. Spero che seguiranno altre pubblicazioni in lingua tedesca.
*Pubblicità, non retribuita.
Foto in copertina gentilmente fornita da Lorenzo Licalzi.
Intervista molto bella!
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Grazie, Tom!
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